Corte di cassazione – Sezione lavoro – sentenza 3 marzo 2014 n. 4919. Le dimissioni presentate durante la gravidanza (o il congedo del padre) si presumono sempre non spontanee. Del tutto superflua, pertanto, la ricerca del motivo che le ha cagionate. L’articolo 55 del dlgs 26 marzo 2001 n. 151 prevede che «in caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell’art. 54, il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento». La richiesta di dimissioni deve essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del Lavoro competente per territorio e prevede che a detta convalida è condizionata la risoluzione del rapporto di lavoro. Pertanto, in caso di dimissioni volontarie durante il periodo per cui è previsto il divieto di licenziamento, competono le indennità previste per il caso di licenziamento e l’obbligo di corresponsione di tali indennità viene esteso dai successivi due commi ai casi del lavoratore padre che abbia fruito del congedo di paternità e nei casi di adozione e di affidamento, nei limiti in tale ultimo caso, di un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare. Il cambio di disciplina rispetto alla precedente normativa (legge 1204/1971, articolo 12) risiede nella «previsione dell’obbligo di convalida della dimissioni presentate nei periodi indicati dal comma 4° da parte del servizio ispettivo del Ministero del lavoro competente per territorio, previsione seguita dalla specificazione che “a detta convalida è condizionata la risoluzione del rapporto di lavoro. In sostanza, mentre non trova deroga il principio della presunzione di non spontaneità delle dimissioni che, seppur volontariamente rassegnate, si ritengono dettate da ragioni collegate alla specifica situazione che induce a privilegiare esigenze di tutela della prole rispetto alla stabilità dell’occupazione lavorativa, la volontarietà delle stesse, accertata dal servizio ispettivo competente, è idonea a determinare la risoluzione del rapporto, che, diversamente, non potrebbe verificarsi. La Corte vira oltre un proprio precedente, 10994/2000, secondo cui «la presunzione di non completa spontaneità delle dimissioni non può ritenersi operare in modo assoluto, per violazione del principio di ragionevolezza di una interpretazione che consenta l’imposizione indiscriminata di obblighi indennitari al datore di lavoro, introducendo la possibilità di prova da parte del datore di circostanze riferite all’inizio di un nuovo lavoro senza intervallo da parte della lavoratrice e la necessità di prova contraria, da parte di quest’ultima o di prova, di minore vantaggiosità della nuova occupazione … deve ribadirsi la presunzione di non spontaneità delle dimissioni presentate nel periodo considerato, che è concetto diverso da quello della volontarietà delle stesse, che, se accertata dal servizio ispettivo, incide, tuttavia, nel senso di rendere valido ed efficace il recesso ed è tale da condizionare il conseguente effetto risolutorio del rapporto».