Cassazione civile Sezioni Unite sez. 15 maggio 2014 n. 10628. La motivazione della sentenza ha una funzione non solo endoprocessuale, finalizzata cioè al controllo interno della regolarità della decisione ed all’espletamento dei possibili rimedi previsti dal codice di rito, ma anche extraprocessuale, in quanto solo la conoscibilità delle ragioni della decisione invera la stessa legittimazione del potere giurisdizionale e manifesta il rispetto da parte del giudice del suo dovere, imposto dall’art. 101 Cost., di esclusiva soggezione alla legge. Con sentenza n. 38/2008, la Sezione disciplinare, nell’esaminare un caso di sentenze civili redatte mediante la pedissequa riproduzione del contenuto di comparse conclusionali con la tecnica del “copia e incolla”, aveva già detto che una decisione che, senza neanche esplicitarlo, si appropri anche nella forma espositiva della prospettazione di una delle parti, fa perdere non solo nell’apparenza, ma anche nella sostanza, la posizione di terzietà e prima ancora di alterità del giudice rispetto alle parti, che è il fondamento della giurisdizione”, in quanto non permette di fare affidamento sul fatto che la decisione costituisca il risultato di una fase di autonoma elaborazione da parte del giudice. Una sentenza la cui motivazione si esaurisca nella pedissequa riproduzione di un atto difensivo della parte vittoriosa è scorretta non solo nei confronti della parte soccombente e del suo difensore, ma anche della stessa parte vittoriosa e, a ben vedere, di tutti i consociati, in relazione al generale interesse all’autonomia della funzione giurisdizionale ed alla percezione della terzietà del giudice, quale che sia il contingente contesto nel quale il giudizio volta a volta sia espresso. Non potrebbe d’altronde persuasivamente assumersi che l’immagine del magistrato non sarebbe lesa se solo egli avesse cura di ricopiare gli atti di entrambe le parti per poi aderire, sic et simpliciter, alla tesi dell’una o dell’altra. La lesione non sarebbe per questo meno grave, e la relativa percezione non per questo accettabile. Deve dunque affermarsi che, quante volte il comportamento abitualmente o gravemente scorretto sia costituito dall’emissione di provvedimenti con motivazione ricopiata (ed in questo senso privi di motivazione), l’insita indeterminatezza dei destinatari del comportamento stesso impedisce la configurabilita dell’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. d), che ha riguardo a comportamenti scorretti nei confronti di soggetti determinati, per quanto non necessariamente individuati. Tuttavia, non è sufficiente ad escludere la sussumibilità del fatto nell’ambito applicativo del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. l), la considerazione che anche una motivazione integralmente ricopiata da un atto difensivo di parte può essere ampiamente idonea a sorreggere la decisione e che, se tanto accade, non si può dire che una motivazione manchi. Nella giurisprudenza della Sezione disciplinare costituisce corretto ed ampiamente acquisito principio quello secondo il quale anche una decisione validamente motivata per relationem può risultare censurabile sul piano disciplinare; e ciò in quanto, mentre sul piano del diritto processuale è sufficiente che la decisione risulti giustificata in modo che ne risulti comprensibile la ratio, su quello del diritto disciplinare è necessario che la motivazione non sia redatta con modalità tali da ledere l’immagine del magistrato (così, tra le altre, la sentenza n. 164/2010, anch’essa richiamata da quella impugnata). La circostanza, dunque, che una motivazione vi sia e sia sufficiente sul piano (endo)processuale non esclude affatto la possibilità che essa non assolva la sua diversa funzione extraprocessuale (quale sopra individuata) se, per essere pedissequamente ricopiata da un atto di parte, non permetta di fare affidamento sul fatto che la decisione costituisce il risultato di una fase di autonoma elaborazione da parte del giudice nella sua imprescindibile posizione di terzietà. Va peraltro precisato che le esigenze di celerità e le sempre crescenti possibilità offerte dagli strumenti informatici, in una alla non necessità che il dictum giurisdizionale costituisca un prodotto in ogni parte originale, impongono di attenuare il rigore della ricorrente enunciazione (presupposta dalla impugnata sentenza) secondo la quale, invece, la rilevanza disciplinare può escludersi “solo quando” il pedissequo recepimento di un atto difensivo concerna parti meramente descrittive, così dandosi luogo ad una sorta di automatismo fra copiatura di una rilevante parte non descrittiva e sussistenza dell’illecito. Tale automatismo non è mai configurabile. Se, invero, il pedissequo, letterale e non evidenziato recepimento di quanto scritto da una parte è sempre inelegante, spesso poco dignitoso per l’attitudine ad offrire l’impressione della dissimulazione dello scarso impegno del magistrato, addirittura disdicevole quando assuma preponderante rilievo nel complessivo contesto della motivazione, in tanto è tuttavia idoneo ad integrare l’illecito di cui all’art. 2 cit., lett. l), in quanto sia tale, in concorso con ulteriori elementi sintomatici, da poter effettivamente indurre a ritenere che il giudice non abbia compiuto alcuna effettiva valutazione del caso sottoposto al suo esame ed abbia così violato l’elementare dovere di garantire che la decisione sia stata assunta in piena autonomia di giudizio e previa autonoma valutazione delle contrapposte tesi difensive. Neppure è configurabile l’automatismo inverso, nel senso che basta l’evidenziazione della fonte ad escludere l’illecito in parola, com’è stato talora sostenuto sul rilievo che non di rado, soprattutto negli atti difensivi conclusionali, una parte si fa carico delle opposte tesi proprio per confutarle e che l’altra potrebbe aver addotto argomenti di tale assoluta inconsistenza da non meritare alcuna specifica disamina, anche perchè in ipotesi completamente elisi o assorbiti dalle osservazioni della controparte. Tanto perchè l’avere il giudice reso chiaro – espressamente affermandolo, o mediante virgolettatura se sufficiente in relazione alla lunghezza delle parti riprodotte, o attraverso altra tipizzazione grafica – che quanto scritto in sentenza non costituisce il frutto di un’elaborazione propria, può non essere tuttavia sufficiente a rendere palese che egli abbia considerato anche le argomentazioni opposte, se queste erano pertinenti e suscettibili di infirmare le tesi accolte, pur se mediante non nascosta copiatura. Non può insomma prescindersi dalla specifica considerazione delle caratteristiche di ogni singolo caso, benchè la chiara evidenziazione di quanto letteralmente riprodotto dagli atti difensivi delle parti tendenzialmente escluda la lesione dell’immagine del magistrato e, all’opposto, la non manifestata riproduzione tendenzialmente la palesi.
Carmine Lattarulo