Cassazione Civile Sezione III 1 settembre 2015 n. 16993. La sentenza in commento tratta la vicenda di una donna alla quale non le era stato diagnosticato un tumore all’utero, in stato avanzato, per il quale aveva poi perso la vita. La Cassazione traccia i profili della colpa: il debitore è di regola tenuto ad una normale perizia, commisurata alla natura dell’attività esercitata (secondo una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità del soggetto, sicché deve escludersi che ove privo delle necessarie cognizioni tecniche il debitore rimanga esentato dall’adempiere 1’obbligazione con la perizia adeguata alla natura dell’attività esercitata); mentre una diversa misura di perizia è dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore, in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore di attività ed in particolare allo specialista). Atteso che la diligenza deve valutarsi avuto riguardo alla natura dell’attività esercitata (art. 1176, 2° co., c.c,), al professionista (e a fortiori allo specialista) è richiesta una diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare e allo standard professionale della sua categoria; l’impegno dal medesimo dovuto, se si profila superiore a quello del comune debitore, va considerato viceversa corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale o lavorativa esercitata, giacché il medesimo deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale o lavorativo della sua categoria, tale standard valendo a determinare, in conformità alia regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonché del relativo grado di responsabilità. Nell’adempimento delle obbligazioni ( e dei comuni rapporti della vita di relazione ) il soggetto deve osservare altresì gli obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale la cui violazione comporta l’insorgenza di responsabilità (anche extracontrattuale). E’ pertanto tenuto a mantenere un comportamento leale, osservando obblighi di informazione e di avviso nonché di salvaguardia dell’utilità altrui – nei limiti dell’apprezzabile sacrificio-, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi (cfr differenti fattispecie, Cass., 20/2/2006, n. 3651; Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 15/2/2007, n. 3462; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 30/10/2007, n. 22860; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056; Cass., 27/4/2011, n. 9404, e, da ultimo, Cass., 27/8/2014, n. 18304). In tema di danno alla persona conseguente a responsabilità medica, si è per altro verso nella giurisprudenza di legittimità precisato che l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale (in relazione al quale sia manifesti la possibilità di effettuare solo un intervento c.d. palliativo), determinando un ritardo della relativa esecuzione cagiona al paziente un danno già in ragione della circostanza che nelle more egli non ha potuto fruirne, dovendo conseguentemente sopportare tutte le conseguenze di quel processo morboso, e in particolare il dolore, che la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto alleviargli, sia pure senza la risoluzione del processo morboso (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 23/5/2014, n. 11522). Danno risarcibile alla persona in conseguenza dell’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale è stato dalla Corte di Cassazione ravvisato anche in conseguenza della mera perdita per il paziente della chance di vivere per un (anche breve ) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ovvero anche solo della chance di conservare, durante quel decorso, una “migliore qualità della vita” (vedi Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 8/7/2009, n. 16014, Cass., 27/3/2014, n. 7195). Si è al riguardo precisato che in tale ipotesi il danno per il paziente consegue pure alla mera perdita della possibilità di scegliere, alla stregua delle conoscenze mediche del tempo,”cosa fare” per fruire della salute residua fino all’esito infausto, anche rinunziando all’intervento o alle cure per limitarsi a consapevolmente esplicare le proprie attitudini psico-fisiche in vista del e fino all’exitus (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846). La paziente presentò episodi di perdite ematiche dai genitali e il il medico effettuò controlli clinici per cinque volte in cui venne controllata e rimossa la spirale, venne eseguita un’ecografìa, vennero prescritti antibiotici e utero tonici. In seguito ad un ricovero, le fu diagnosticato il carcinoma, mediante biopsia del canale cervicale, ciò da cui può desumersi, con certezza, che il carcinoma era già presente all’atto delle visite presso il ginecologo. Orbene, dopo avere correttamente affermato che il comportamento nel caso dal medico mantenuto non è stato improntato alla dovuta diligenza, essendosi con certezza accertato che il carcinoma era già presente all’atto delle visite e che 1’approccio diagnostico del medesimo fu insufficiente perché il quadro patologico andava approfondito mediante l’effettuazione di esami diagnostici quali il pap test, la colposcopia e la biopsia della cervice uterina, la corte dì merito era invero pervenuta ad escludere la responsabilità del medesimo argomentando dal rilievo che poco o nulla sarebbe cambiato circa il decorso clinico, con specifico riferimento alla forma tumorale, particolarmente maligna e aggressiva, traendone la conferma dell’insussistenza del nesso causale tra l’aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario. L’intervento medico può essere comunque volto a consentire al paziente di poter eventualmente fruire dì un intervento anche solo meramente palliativo idoneo, se non a risolvere il processo morboso o ad evitarne l’aggravamento, quantomeno ad alleviarne le sofferenze (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 23/5/2014, n. 11522 ). A tale stregua, l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale assume allora rilievo causale non solo in relazione alla chance di vivere per un (anche breve ) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto ma anche per la perdita da parte del paziente della chance di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita intesa quale possibilità di programmare (anche all’esito di una eventuale scelta di rinunzia all’intervento o alle cure) il proprio essere persona e quindil’esplicazione delle proprie attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell’esito (Cass. 2008/21748). Il concetto di patrimonialità va correlato al bene in relazione al quale la chance si assume perduta e, quindi, in riferimento al danno alla persona ad una chance di conservazione dell’integrità psico-fisica o di una migliore integrità psico-fisica o delle condizioni e della durata dell’esistenza in vita (Cass. 18/9/2008 n. 23846).
Avv. Carmine Lattarulo