In tempi recenti, si è riscontrato un rinnovato interesse, soprattutto in dottrina, verso il tema del comportamento contraddittorio. Ci si interroga sull’ambito di operatività e gli effetti di un principio che vieti di porsi in contrasto con la propria condotta. E’ affermazione condivisa che l’applicazione giurisprudenziale del divieto di venire contro il fatto proprio sarebbe un’applicazione occulta. Si tratterebbe di una sorta di regola artigianale del mestiere, di una massima la cui influenza non discende da una auctoritas, quanto dalla sua ampia portata e forza suggestiva sul piano del linguaggio comune e della uniforme applicazione nel tempo, sviluppatasi in quanto considerata espressione di considerazioni latu sensu di giustizia.
Nel nostro ordinamento, tra le decisioni comunemente considerate espressione del divieto di venire contra factum proprium, assume rilievo preminente una recente sentenza della Suprema Corte in tema di circolazione stradale (Cass. Civ. Sez. III 1 febbraio 2010 n. 2267), con la quale è stato affermato che “il riconoscimento di una parte numerica equivale a riconoscimento del diritto quale ragione di credito, quale che sia, poi, la somma concretamente riconosciuta come dovuta. Con altro arresto (Cass. Civ. 16 marzo 1999 n. 2315), precedente rispetto all’emanazione delle legge n. 40/2004, è stato affermato che al marito che abbia validamente prestato il proprio consenso alla fecondazione assistita eterologa della moglie è precluso l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità. Sebbene i giudici di legittimità non menzionino espressamente il divieto di venire contra factum proprium, la dottrina ampiamente prevalente ha espressamente ricondotto la decisione in esame al divieto di porsi in contrasto con se stesso. Del resto, anche molteplici disposizioni codicistiche impongono il dovere di non contraddire i propri precedenti comportamenti.