Cassazione Civile Sez. VI 1 luglio 2020 n. 13261: “la morte d’una persona può costituire un danno non patrimoniale per chi le sopravvive e non per chi viene a mancare”.
Il fatto.
Si discute se la persona, prima di morire, abbia la perturbatio animi tale da fare rientrare nel suo patrimonio il danno da perdita della vita, che si trasmette ai suoi eredi.
La decisione.
In questa sentenza, la VI Sezione ha affermato che “dal punto di vista del diritto civile, la morte d’una persona può costituire un danno non patrimoniale per chi le sopravvive, e non per chi viene a mancare”. Si è conformata al principio esposto dalle Sezioni Unite, le quali, con sentenza n. 15350 del 22/07/2015, affermarono che non è risarcibile nel nostro ordinamento il danno “da perdita della vita”, poiché non è sostenibile che un diritto sorga nello stesso momento in cui si estingua chi dovrebbe esserne titolare.
Pertanto, vanno ancora deluse le speranze riposte in questa sentenza per ridiscutere il controverso tema del risarcimento del bene della vita. Epicuro, nella Lettera sulla felicità a Meneceo, diceva: “quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci.”).
In buona sostanza, il danneggiato che muore istantaneamente non percepisce la morte e quindi non rientra nel suo patrimonio il relativo credito risarcitorio che, quindi, non può essere trasmesso agli eredi. La Corte di Cassazione scelse una frase largamente infelice per spiegare il principio epicureo: “il bene della vita non è la massima lesione del bene salute”. In termini assai pratici, e quindi risarcitori, nei seminari viene spiegato questo concetto: “è più conveniente uccidere che ferire mortalmente”; ovvio, non pagheremo il danno tanatologico agli eredi del morto istantaneamente. Nella morte cagionata da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico “vita”, che costituisce bene autonomo, ma (e ripetiamo: ma) fruìbile solo in natura da parte del titolare (cass. n. 1633 del 2000; n. 7632 del 2003; n. 12253 del 2007). La morte, quindi, non rappresenterebbe la massima offesa possibile del diverso bene “salute”, pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata la morte. E poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitone, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriverebbe dalla … assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito.
Ancora una volta, ci avevamo sperato.
Avv. Carmine Lattarulo ©