Cassazione Civile Sez. III 3 ottobre 2022 n. 28632: il colpevole ritardo nella diagnosi di patologia ad esito infausto determina il danno derivante dalla perdita di un “ventaglio” di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima.
La questione.
Si discute se la omessa diagnosi di un processo morboso terminale realizzi un danno risarcibile ed, in tale prospettiva, come liquidarlo.
La decisione.
La Cassazione torna a soffermarsi sul diritto di “morire ad occhi aperti”, affermazione contenuta nell’ultima pagina del capolavoro di Marguerite Yourcenar “Memorie di Adriano”: “piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più … Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…”
Dalla letteratura al diritto, quello di “morire ad occhi aperti” è diritto autonomamente risarcibile, se leso dal colposo ritardo diagnostico di patologia ad esito certamente infausto. La Casazione ribadisce che il danno va liquidato in via equitativa, ex art. 1226 c.c., sebbene con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto (Cass., 25/6/2021, n. 18284; Cass., 21/7/2011, n. 15991; Cass., 29/2/2016, n. 3893; Cass., 21/8/2018, n. 20829 e Cass., 18/4/2019, n. 10812), al fine di consentire il controllo di relativa logicità, coerenza e congruità e di evitare che la valutazione risulti sostanzialmente arbitraria (Cass., 25/6/2021, n. 18284). Infatti, la valutazione equitativa è rimessa al prudente criterio valutativo del giudice di merito non soltanto quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile, ma anche quando la stessa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, si presenti particolarmente difficoltosa (Cass., 4/4/2019, n. 9339; Cass., 9/5/2003, n. 7073; Cass., 17/5/2000, n. 6414; Cass., 4/7/1968, n. 2247), anche perchè, per la liquidazione del danno per omessa tempestiva diagnosi, non soccorrono le tabelle del Tribunale di Milano, le quali attengono al danno da perdita del rapporto parentale.
La sentenza si concentra sulla liquidazione del danno, sfiora soltanto l’argomento della ontologia del danno da colposo ritardo diagnostico di patologia ad esito certamente infausto.
Se ne era precedentemente occupata (Cassazione Civile Sez. III 12 ottobre 2021 n. 27682; Cassazione Civile Sez. III 15 aprile 2019 n. 10424), nelle quali aveva affermato che il ritardo o la omessa diagnosi di patologia ad esito certamente infausto integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona, in quanto essa nega al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni di scegliere “cosa fare”, nell’ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche, in vista e fino a quell’esito (Cass. Sez. 3, sent. 18 settembre 2008, n. 23846).
Affermò che la violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali, determinata dal colpevole ritardo diagnostico di una patologia ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di “chances” connesse allo svolgimento di specifiche scelte di vita non potute compiere, ma con la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno sulla base di una liquidazione equitativa, perché questa libertà, cioè scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita, è una situazione meritevole di tutela “al di là di qualunque considerazione soggettiva sul valore, la rilevanza o la dignità, degli eventuali possibili contenuti di tale scelta” (Cass. Sez. 3, ord. n. 7260 del 2018). Affermò che in caso di colpevole ritardo nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, né, come detto, nella perdita di “chance” di guarigione, ma include la perdita di un “ventaglio” di opzioni con le quali scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita, che determina la lesione di un bene reale, certo – sul piano sostanziale – ed effettivo, apprezzabile con immediatezza, qual è il diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali; in tale prospettiva, il diritto di autodeterminarsi riceve positivo riconoscimento e protezione non solo mediante il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, mediante la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche attraverso la mera accettazione della propria condizione.
Rileva, in tale prospettiva, innanzitutto la legge 15 marzo 2010 n. 38 (disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore), recante un “corpus” di norme aventi come scopo, tra l’altro, anche (art. 1, comma 3, lett. “b”) la “tutela e promozione della qualità della vita fino al suo termine”. Non priva di rilievo è, poi, la stessa legge 22 dicembre 2017 n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), la quale (all’art. 4) riconosce ad ogni persona maggiorenne e capace di intendere e volere, “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”, la possibilità sia di “esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”, sia di nominare, al medesimo scopo, un fiduciario, stabilendo, nel contempo, che tali direttive anticipate sono “rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento”.
L’autodeterminazione del soggetto chiamato alla più intensa prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine, non è, dunque, priva di riconoscimento e protezione sul piano normativo, e ciò qualunque siano le modalità della sua esplicazione: non solo il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche la mera accettazione della propria condizione, perché “anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose” (Cass. Sez. 3, ord. n. 7260 del 2018).
Avv. Carmine Lattarulo ©