Cassazione Civile Sezione III 18 settembre 2015 n. 18305. La correzione del deficit uditivo con impianto cocleare non elide l’incidenza della invalidità sul possibile dispiegarsi sulla futura capacità lavorativa di un minore. Dalle nozioni comune esperienza, la Cassazione ricava che dispiegare una capacità lavorativa, sebbene generica, con un apparecchio impiantato come protesi artificiale e, dunque, invasivo riguardo alla persona, si connota come situazione diversa da quella in cui si trovi nella stessa condizione di una persona sana, normoudente, ai fini dell’esplicazione della capacità lavorativa. E’ sufficiente riflettere sul dato che una persona, della quale debba apprezzarsi la capacità lavorativa, dovendo operare con l’apporto di detto impianto e, dunque, di un’entità esterna alla propria persona, anche se in parte inserita nella sua fisicità, certamente è nella condizione di dover costantemente percepire tale incidenza sulla propria persona di detta entità, per comprendere che l’impiego delle sue facoltà nell’esplicazione di una qualsiasi attività lavorativa, a prescindere dall’utilitas specifica che per essa possa avere in concreto, in misura minore o maggiore, la capacità uditiva, non può non risentire negativamente della percezione costante di tale incidenza a differenza di come si porrebbe una persona normoudente che non sia costretta ad usare rimpianto. La condizione di chi deve lavorare senza un impianto di tal genere è diversa da quella di chi debba lavorare con un impianto se non altro perché il secondo lavorerà con la consapevolezza del proprio handicap, della propria minorata condizione, che è percezione che la presenza dell’impianto non potrà certo eliminare con l’effetto compensativo. Tale costante consapevolezza – la Corte spiega – nonché quella delle attività complementari alla manutenzione e gestione dell’impianto, implicando una percezione di una condizione pur sempre minorata, si presta necessariamente ad essere valutata come un modo di porsi della persona che l’avverte, di fronte alla propria proiezione lavorativa, in una condizione diversa e peggiore di una persona “normale”, cioè normoudente. Tanto nello scegliere la direzione della propria capacità lavorativa generica, quanto nell’esplicare la capacità corrispondente alla scelta una volta realizzata nelle future potenzialità, l’incidenza del dover far conto costante sull’impianto, sulla protesi, rappresenta una percezione di sé stesso che, secondo una nozione di esperienza comune, sarà idonea ad influenzare tanto la scelta quanto le possibilità di progressione futura della capacità lavorativa in atto. In altri termini, chi sopporta l’applicazione di un impianto (nella sentenza in commento, di carattere cocleare), sebbene da esso riceva la correzione del deficit, è costretto a convivere con la sua invasiva presenza ed a costantemente percepirla e tanto si presta ad essere apprezzato come condizione che sarà rilevante negativamente quando egli dovrà cercare lavoro e quanto, una volta trovatolo, dovrà competere per progredire in carriera. Si vuol dire che la percezione e sopportazione di una protesi correttiva di un deficit psico-fisico, sebbene essa lo corregga pienamente, costituisce elemento che, quando si deve apprezzare la capacità lavorativa della persona non può essere ignorata a questo scopo semplicemente perché la protesi è idonea a correggere il deficit. E ciò tanto più quando, come nella specie si debba stimare la capacità lavorativa futura di una minore, la quale sarà costretta a vivere con (r)impianto, con la protesi, fin dall’età infantile e, quindi, per un lungo periodo prima di mettersi in giuoco sul mercato del lavoro, subendo l’incidenza negativa della percezione di sé come soggetto che ha una protesi durante l’infanzia, durante adolescenza e durante l’età giovanile. La percezione della condizione di soggetto che è costretto a ricorrere ad una protesi e che, quindi, è in una condizione diversa dalle persone “normali” è, già durante tali fasi della vita circostanza idonea ad esser apprezzata secondo l’id quod plerumque accidit come determinativa di una condizione della persona che certamente influenzerà la sua futura capacità lavorativa. In ultima analisi, per intendersi: una minore che dovrà convivere e, quindi, sentirsi diversa dai coetanei durante l’infanzia, dovrà fare la stessa cosa quando sarà adolescente, e la medesima quando sarà in età giovanile, per il fatto stesso di sentirsi “diversa” per tutte queste tre fasi della sua vita, è più che ragionevole reputare che da tale percezione risentirà durante la sua evoluzione attraverso di essa conseguenze che si riveleranno incidenti quando dovrà entrare nel mercato del lavoro. La Corte indulge in alcuni esempi, prendendo a cuore le ragioni del danneggiato, come raramente accade: durante l’età scolare sarà soggetto che avrà difficoltà di apprendimento dell’istruzione maggiori di uno normale e ciò proprio per la sua condizione costantemente accompagnata dalla percezione della presenza dell’impianto e, dunque, dalla sua condizione di anormalità. Sarà soggetto che non potrà giuocare allo stesso modo dei suoi coetanei. Durante l’adolescenza e l’età giovanile, nel relazionarsi agli altri, non potrà non risentire della sua particolare condizione.
Avv. Carmine Lattarulo