Cassazione Civile Sezione VI 26 settembre 2018 n. 23069: nè il dovere di correttezza di cui all’art. 1175 cc, né quello di buona fede di cui all’art 1375 cc, impongono al creditore di avvertire il debitore dell’imminente scadenza del termine di prescrizione del diritto di credito. Tale obbligo e l’eventuale responsabilità derivante dalla sua violazione potrà sussistere solo in presenza di una norma espressa che l’’imponga al debitore .
Il fatto.
Un indennizzo di assicurazione sulla vita venne richiesto oltre la data della scadenza contrattuale, di talchè l’assicuratore eccepì la prescrizione. Il contraente, in primo grado, rilevava di non aver ricevuto alcun avviso. Il Tribunale accoglieva la domanda, tuttavia respinta in appello promosso dall’assicuratore. Il contranete ricorreva in cassazione.
La decisione.
Secondo il Supremo Collegio, nessuna norma e nessun principio del nostro ordinamento impongono al debitore di avvisare il creditore che il suo credito sta per estinguersi per prescrizione. Il dovere di correttezza è previsto in via generale dall’art. 1175 c.c.. Secondo la relazione al codice civile, l’art. 1175 c.c.:
(a) costituisce un dovere giuridico qualificato dall’osservanza dei principi di solidarietà; (b) ha per oggetto l’obbligo di comportarsi con lealtà, fermezza, chiarezza e coerenza; (c) ha lo scopo di richiamare nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”‘; (d) il contenuto del suddetto dovere va determinato anche con riferimento agli usi (così la “Relazione al Re Imperatore Roma 1942, § 558, pp. 116-117).
Tali princìpi sono stati ritenuti tuttora attuali dalla Corte che ha più volte ravvisato nell’art. 1175 c.c. una specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale imposti dall’art. 2 della Costituzione, ed ha chiarito che la suddetta norma impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio (e dunque anche con riferimento alle obbligazioni non contrattuali) il dovere di agire in modo da preservare l’interesse dell’altra ad un adempimento utile, anche a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o legali in tal senso (ex pluris Sez. 3, Sentenza n. 22819 del 10/11/2010; Sez. U. 28056 del 25/11/2008, Sez. I, Sentenza n. 23273 del 27/10/2006; Sez. 1, Sentenza n. 12310 del 05/11/1999; Sez. 3, Sentenza n. 2788 del 24399).
I limiti del dovere di correttezza stabiliti dalla Corte sono tre: interesse proprio, l’accessorietà e lo snaturamento della causa contrattuale.
Il primo limite che incontra il dovere di correttezza sorge quando l’adempimento di esso imporrebbe al soggetto obbligato un apprezzabile sacrificio dei propri diritti o del proprio interesse. Già la Relazione al codice civile, sopra ricordata, chiarì che l’art. 1175 cc impone sì di non ledere l’interesse altrui, ma solo se tale lesione avvenga “fuori dei limiti della legittima tulela dell’interesse proprio». In applicazione di questo principio, la Corte ha già stabilito ad esempio – che in caso di cessione del credito, il ceduto non ha alcun obbligo, una volta vistasi notificare la cessione, di informare il cessionario dell’inesistenza del credito ceduto, non essendo il debito “obbligato a porre in essere uno specifico comportamento nei confronti del cessionario tale da implicare un aggravamento della sua posizione” (cosi Sez. 3, Sentenza n. 21599 del 21/10/2010; nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 5947 del 15/06/1999).
Il secondo limite del dovere di correttezza è l’accessorietà rispetto all’obbligazione che vincola il debitore al creditore. L’obbligo di comportarsi con correttezza non è, infatti un generico dovere di altruismo o di beneficenza ma costituisce completamento di obbligazioni già esistenti. Dal lato del creditore, infatti, quel dovere ha la funzione di non aggravare inutilmente la prestazione debitoria senza vantaggio proprio, e costituisce applicazione del generale divieto di atti emulativi desumibile dall’art. 833 c.c.; dal lato del debitore, il dovere di correttezza ha lo scopo di garantire al creditore una prestazione che sta per lui utile, e non una prestazione purchessia.
Nell’uno, come nell’altro caso, resta escluso che il dovere di correttezza possa essere invocato per pretendere prestazioni mai pattuite, mai remunerate, e soprattutto del tutto estranee all’oggetto del contratto e del rapporto.
In applicazione di questo principio, la Corte ha già stabilito ad esempio che non viola il dovere di correttezza il datore di lavoro che non informi i partecipanti ad una selezione di personale sui risultati della stessa, quando tale selezione non aveva carattere vincolante per il datore stesso: e ciò sul presupposto che il dovere di correttezza “ha sempre carattere strumentale e accessorio rispetto ad altra obbligatone di fonte contrattuale o legislativa” (Sez. L- , Sentenza n. 6930 del 20/03/2018; nello stesso senso Sez. I,, Sentenza n. 4031 del 01/03/2016).
Il terzo limite del dovere di correttezza, circoscritto alle obbligazioni negoziali, è rappresentato dallo snaturamento dell’oggetto e della causa contrattuale.
Il dovere di correttezza, per quanto detto, va osservato per garantire al creditore che l’adempimento dell’obbligazione riesca per lui utile ed efficace, ma non può essere invocato per ottenere prestazioni totalmente estranee al programma contrattuale. Chi acquista un immobile, ad esempio, non potrebbe certo pretendere che per correttezza il venditore glielo tinteggi, se tale obbligazione non fu pattuita.
In applicazione di questo principio, la Corte ha già affermato che il rispetto delle regole della correttezza, prescritto nell’art. 1175 cc, “non comporta che il creditore debba agevolare l’esecuzione della prestazione o comunque renderla meno onerosa di quella pattuita, ma lo obbliga soltanto a non renderla più disagevole e/o gravosa di quanto secondo buona fede possa attendersi” (Sez. 2, Sentenza n. 2252 del 01/03/200). Sempre in applicazione del medesimo principio, più di recente, si è altresì stabilito che non viola il dovere di correttezza il datore di lavoro il quale non informi il lavoratore del fatto che, restando assente per malattia oltre il periodo di comporto, incorrerà nella risoluzione del rapporto, trattandosi di effetto giuridico previsto direttamente dalla legge (cosi Sez. I., Sentenza n. 10852 del 25/05/2016 sostanzialmente nello stesso senso Cass. n. 12563 del 4.6.2014); né quel dovere è violato dall’assicuratore contro i danni che non informi l’assicurato su quali siano i rischi cui è esposta la sua attività, e le misure più opportune per eliminarli (Sez. 1, Sentenza n. 5024 del 18/04/2002).
Dall’applicazione di questi principi, deriva che non è contraria a correttezza non informare il contraente dell’imminenza della maturazione del termine di prescrizione del diritto all’indennizzo:
(a) travalica il limite dell’interesse proprio;
(b) non è accessorio rispetto all’obbligo di pagamento dell’indennizzo;
(c) non fa parte del programma contrattuale, e ne snaturerebbe la causa, trasformando l’assicuratore in un mandatario del contraente, quando non addirittura un negotiorum gestor.
A questi tre argomenti, già stabiliti dalla giurisprudenza pregressa di questa Corte, ve n’è da aggiungere ora un quarto: l’argomento del paradosso.
Se, infatti, si ammettesse che qualunque debitore d’una prestazione abbia l’obbligo, scaturente dal dovere di correttezza, di informare il creditore che il suo credito sia sul punto di prescriversi, l’istituto stesso della prescrizione verrebbe di fatto snaturato.
Ed infatti, supposta l’esistenza di quell’obbligo, si perverrebbe al seguente risultato: che ove il debitore lo osservi, ed informi il creditore dell’imminente prescrizione, il creditore verosimilmente la eviterà; se il debitore non lo osservi, ed il credito si prescriva, il debitore sarà obbligato a risarcire un danno pari al credito perduto. Risarcimento oggetto d’un diritto il cui creditore, all’approssimarsi del maturare della prescrizione, avrà diritto di essere avvertito pena il risarcimento danno, e così via all’infinito.
Ncll’uno, come nell’altro caso, dunque, il rapporto obbligatorio mai si esaurirebbe e mai diverrebbe “quesito”: approdo, quest’ultimo che sì porrebbe in contrasto col millenario fondamento dell’istituto della prescrizione, che è quello di dare certezza e stabilità ai rapporti giuridici, ed evitare che lites fiant paene perennes et vita hominum modum excedant (secondo la celebre definizione della legge Properandum dell’imperatore Giustiniano del 27 marzo 530, in Codex 111 Ili, I. 13).
In applicazione di questo principio, la Corte ha già stabilito ad esempio che non viola il dovere di correttezza la lavoratrice in stato interessante che sottaccia al datore di lavoro, al momento dell’assunzione, là propria condizione, e ciò sul presupposto che l’opposta soluzione “finirebbe per rendere inefficace lo tutela della lavoratrice madre” (Scz. L, Sentenza n. 9864 del 116/07/2002).
Sin qui le regole di correttezza di cui all’art. 1175 cc. Resta ora da esaminare se un simile obbligo possa dirsi sorto dal dovere di eseguire il contratto in buona lede, di cui all’art. 1375 c.c.. Secondo la costante giurisprudenza della Corte, il dovere di buona fede:
(a) ha natura oggettiva: deve cioè intendersi conte obbligo di comportarsi con lealtà e correttezza nell’esecuzione del contratto (e non come ignoranza di ledere l’altrui diritto);
(b) ha una funzione solidale, in attuazione dell’art. 2 Cost..
La buona lede è in sostanza, la condotta che qualsiasi “persona per bene” avrebbe ragionevolmente tenuto nelle medesime circostanze di tempo e di luogo in cui si sono trovate le parti dello specifico rapporto negoziale. Sebbene l’ampia formula legislativa non consenta alcuna tassonomia delle condotte di buona fede nell’esecuzione del contratto, la Corte ha individuato alcune fattispecie che costituiscono figure sintomatiche della buona fede contrattuale, tra cui:
(-) l’obbligo di tollerare gli inadempimenti od i ritardi altrui quando per la loro natura modesta sono insuscettibili di alterare l’equilibrio del sinallagma;
(-) l’obbligo di attivarsi, nei limiti di un apprezzabile sacrificio, per informare la controparte su tutte le circostanze rilevanti dell’affare;
( ) l’obbligo di attivarsi, nei limiti di un apprezzabile sacrifìcio, per far si che la controparte riceva una prestazione contrattuale utile;
(-) l’obbligo di astenersi dall’esecuzione di prestazioni contrattualmente pattuite, quando ciò possa pregiudicare l’utilità della controparte.
Da un lato, quindi, anche il dovere di comportarsi secondo buona fede non può far sorgere a carico del debitore obblighi del tutto nuovi e diversi rispetto a quelli contrattualmente assunti; dall’altro anche l’obbligo in esame non può estendersi fino al punto di ricomprendere quello di attuarsi per sopperire alle manchevolezze od alle negligenze della controparte contrattuale (ex multis si segnala in tal senso, per la sua completezza, Sez. 2, Sentenza n. 7987 del 07/08/1990).
E proprio con riferimento all’esistenza di termini legali di decadenza da un diritto, la Corte ha già affermato che la relativa disciplina non può mai dirsi contraria a buona fede (e non impone pertanto interpretazioni estensive dell’art. 1375 c.c.), quando una delle parti sia soggetta “ad un onere che può essere assolto con la semplice osservanza della ordinaria diligenza” (Sez. 1, Sentenza n. 6911 del 15/12/1982).
Alla luce dei principi che precedono, deve concludersi che varrà anche per il dovere di buona fede quanto già esposto in precedenza riferimento al dovere di correttezza: e dunque che esso è soggetto ai tre limiti dell’interesse proprio, dell’accessorietà e dello snaturamento della causa contrattuale; che la condotta dell’assicuratore, il quale non informi l’assicurato dell’imminente prescrizione dei suoi diritti, non è contraria a buona fede, perché giustificata dai tre limiti suddetti; e che interrompere la prescrizione è un atto rientrante nell’ordinaria diligenza, sicché chi diligente non fu non può pretendere di esonerarsi dalle conseguenze delle proprie omissioni riversandone gli effetti sulla controparte contrattuale.
La Corte va a dettare, quindi, il seguente principio: né il dovere di correttezza di cui all’art. 1175 cc, né quello di buona fede di cui all’art 1375 cc impongono al creditore di avvertire il debitore dell’imminente scadenza del termine di prescrizione del diritto di credito. Tale obbligo e l’eventuale responsabilità derivante dalla sua violazione potrà sussistere solo in presenza di una norma espressa che l’’imponga al debitore .
Osservazioni.
La motivazione induce ad alcune riflessioni.
Preliminamente, l’istituto della prescrizione, nel diritto civile, non colpisce solo una perdita del diritto per dimenticanza, bensì una perdita del diritto per tacita rinuncia. In questo caso, sarebbe utile distinguere l’assicurato che non eserciti il suo diritto per dimenticanza, da quello che non si attivi perché vi abbia rinunciato. Il principio della sentenza dovrebbe riferirsi all’assicurato inerte ma consapevole piuttosto che all’inerte smemorato, perché la prescrizione determina l’estinzione, non già una mera modificazione dei diritti; l’istituto dell’avviso non è estraneo alle tecniche assicurative: infatti, l’assicuratore sovente ricorre all’avviso, specialmente alla scadenza delle rate di premio, per richiedere il pagamento. Sebbene l’istituto dell’avviso non sia codificato in una norma, è prassi e come tale appartiene agli “usi”, i quali, secondo la relazione al codice civile, dell’art. 1175 c.c., molto ben ricordata nella sentenza in commento, determinano il contenuto del suddetto dovere di correttezza (così la “Relazione al Re Imperatore Roma 1942, § 558, pp. 116-117).
In secondo luogo, è auspicabile che il Supremo Collegio si pronunci in ambito contrattuale, assicurato contro assicuratore, affinchè preveda adeguata tutela del primo verso il secondo mediante l’assistenza tecnica di un avvocato così come avviene già in ambito extracontrattuale nelle controversie tra danneggiato ed assicuratore, ove la spesa dell’avvocato venga poi pagata (rectius: risarcita) dall’assicuratore, in quanto danno accessorio (Cass. Civ. Sez. Unite 10 luglio 2017 n. 16990; Cass. Civ. Sez. VI, ordinanza 13 marzo 2017 n. 6422; Cass. Civ. Sez. III 19 febbraio 2016 n. 3266; Cass. Civ. Sez. III 29 maggio 2015 n. 11154; Cass. Civ. Sez. VI 1 ottobre 2014 n. 20717; Corte Cost. 21 giugno 2013 n. 157; Corte Cost. 3 maggio 2012 n. 111; Corte Cost. 28 marzo 2012 n. 73; Corte Cost. 19 giugno 2009 n. 180; Cass. Civ. Sez. III 2 febbraio 2006 n. 2275; Cass. Civ. Sez. III 31 maggio 2005 n. 11606; Cass. Civ. Sez. Unite 30 ottobre 1992 n. 11847; Cass. Civ. Sez. Un. 11 giugno 1992 n. 7194; Corte Cost. 14 febbraio 1973 n. 24). Ancor prima di inviare l’avviso di scadenza del contratto, onde riscattare il capitale, l’assicuratore, o qualcun altro, dovrà pur spiegare all’assicurato che cosa sia la prescrizione.
Avv. Carmine Lattarulo ©
L’assicuratore non deve avvisare l’assicurato dell’imminente prescrizione del credito
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