Corte di cassazione – Sezione I penale – Sentenza 7 ottobre 2013 n. 41474. Devono essere presi nella dovuta considerazione che spetta ai diritti costituzionalmente garantiti – e non trattati come ‘desiderata’ ai quali dare risposta solo se possibile in termini di praticabilità – i reclami dei detenuti di religione buddista che chiedono di ricevere la visita del loro maestro zen e un vitto vegetariano conforme con il loro credo. Lo sottolinea la Cassazione, con la sentenza 41474/2013, dando ragione a un detenuto recluso nel carcere di Novara. Con il sostegno del parere espresso dalla Procura generale della Suprema Corte, infatti, la Prima sezione penale della Cassazione ha ricordato che siccome “l’attuale sistema di tutela giurisdizionale dei detenuti nei confronti dei provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria non risulta disciplinato compiutamente dalla legge”, e “in assenza di un efficace intervento legislativo”, è dovere del magistrato di sorveglianza “impartire disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati”. Pertanto i reclami dei detenuti che lamentano violazione di diritti, come quello di chi chiede il maestro zen e il cibo vegetariano, non possono essere liquidati lasciando alla direzione dei penitenziari la ricerca di “modalità tecniche” per vedere che cosa si può fare. Occorre invece, una volta accertato che è un diritto vero e proprio l’oggetto della lamentela, risolvere tali violazioni attivando la “procedura” per dare “valida risposta” a quanto denunciato. Al detenuto, il magistrato di sorveglianza di Novara, con ordinanza del 15 novembre 2012, si era limitato a rispondere di aver già consigliato alla direzione del carcere, data la lamentela anche di un altro detenuto, di sostituire l’impresa fornitrice del vitto. E per quanto riguardava il mancato accesso del maestro buddista zen, l’ordinanza faceva presente che queste cose dipendevano dal Ministero e non dalla direzione dell’Istituto. Ma questo tipo di risposte non vanno assolutamente bene, spiega la Cassazione. Il magistrato – ammoniscono gli ‘ermellini’ – deve porre rimedio ai diritti lesi di chi è in carcere, e che come unica chance ha l’appello al giudice sorveglianza, emettendo provvedimenti di “natura giurisdizionale”, ovvero sentenze che devono essere rispettate e alle quali “il Ministero della Giustizia non può disporre che non venga data esecuzione”. Così l’ordinanza è stata annullata senza rinvio, come chiesto dal detenuto e dal Pg Gabriele Mazzotta, e ora al reclamo del recluso dovrà essere data una risposta molto più concreta se si riterrà che anche in carcere deve essere rispettato il credo zen. Pure se l’invocazione di questa pratica così pacifica e meditativa viene da un killer di camorra, Catello Romano, reo confesso dell’omicidio del consigliere del Pd di Castellammare di Stabia Luigi Tommasino ucciso il 3 febbraio 2009 mentre era in macchina con il suo bambino che per un soffio si salvò dall’agguato.