Cassazione Civile Sezione III 7 luglio 2016 n. 13919: l’urgenza è contemplata nei protocolli sanitari e si traduce nella organizzazione interna finalizzata alla gestione dell’emergenza.
Il fatto.
Un militare, ferito gravemente da un colpo d’arma da fuoco accidentalmente partito, veniva sottoposto a diverse trasfusioni, dalle quali contraeva epatite acuta, che conduceva alla morte del militare. Evocato il giudizio dai congiunti, il Tribunale dichiarava prescritta l’azione risarcitoria nei confronti del Ministero della Salute e rigettava l’azione contrattuale nei confronti dell’ospedale, il quale riteneva di aver operato in stato di necessità ed urgenza. La Corte di Appello confermava il decisum. I congiunti ricorrevano in Cassazione.
La decisione.
Una struttura ospedaliera, allorché effettui una operazione d’urgenza, non opera in stato di necessità e, pertanto, non è esente da ogni obbligo di rispetto delle ordinarie regole di prudenza, canalizzate all’interno della strutture ospedaliere in dettagliati protocolli medico chirurgici ai quali i sanitari operanti nella struttura si devono attenere.
Perché sia ravvisabile lo stato di necessità, previsto dall’art. 2045 cod. civ. come causa di esclusione della responsabilità civile, è richiesta la sussistenza della necessità di salvare sè od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. La norma implica che un soggetto si venga a trovare fortuitamente, a prescindere dalla sua volontà e dalla sua possibilità di esercitare un controllo sulla situazione in atto, in questa imprevista ed imprevedibile situazione, all’interno della quale soltanto si giustifica il compimento da parte sua di scelte, altrimenti sanzionate dai canoni della responsabilità civile, purché finalizzate alla necessità di salvare sé od altri dalla imprevista e imprevedibile situazione di pericolo.
Secondo il Supremo Collegio, l’elemento della imprevedibilità è dunque strettamente connaturato al sorgere della causa di giustificazione, dovendo altrimenti una situazione di pericolo esser affrontata e risolta nei modi ordinari senza richiedere o giustificare un intervento da parte di un soggetto che sia al contempo lesivo di altri diritti.
Tuttavia, detto elemento di “imprevedibilità” non può essere integrato nella mera necessità di intervenire d’urgenza con un intervento chirurgico, per salvare la vita di un’altra persona, a meno che il medico si trovi fuori da una adeguata struttura sanitaria e non sia in grado di raggiungerla, mettendo altrimenti a repentaglio la vita della persona in pericolo. Solo in questo caso, chi interviene non potrà usufruire dei controlli preventivi e degli standard di sicurezza e di igiene che sono imposti all’ospedale per il suo ordinario funzionamento, sia come struttura di cura che come struttura chirurgica.
Invece, se l’intervento chirurgico, per quanto di “chirurgia d’urgenza”, e quindi non programmato, avviene all’interno di una struttura a ciò deputata e quindi professionalmente organizzata proprio, tra l’altro, per poter affrontare interventi d’urgenza in condizioni di sicurezza, non è configurabile lo stato di necessità, perché l’urgenza stessa deve necessariamente essere prevista e programmata e al suo verificarsi scatta o deve scattare l’adozione di specifici protocolli, tra i quali la predisposizione di sacche di sangue già controllate. Nei compiti di una struttura ospedaliera organizzata ed operante sul territorio, rientra, tra gli altri, la programmazione delle situazioni di emergenza, che si deve tradurre in una apposita organizzazione interna finalizzata proprio alla professionale ed organizzata gestione dell’emergenza, con appositi protocolli, la previsione di turni in chirurgia di tutte le qualifiche professionali coinvolte, la disponibilità all’occorrenza delle sale operatorie con priorità su interventi che possono attendere, come l’approvvigionamento preventivo di risorse ematiche verificate o comunque la predeterminazione delle modalità di un approvvigionamento aggiuntivo straordinario ove necessitato dalla situazione di emergenza. Ne consegue che, a fronte della contrazione da parte di un paziente di epatite post trasfusionale, grava sulla struttura ospedaliera l’onere di provare di aver eseguito, sul sangue somministrato, tutti i controlli all’epoca dei fatti previsti.
Per completezza, con recente sentenza (Corte di Cassazione Sezione III 19 febbraio 2016 n. 3261) non richiamata nella decisione, la III Sezione aveva affrontato la questione del riparto di responsabilità tra Ministero e struttura medica in tema di sangue infetto: sul Ministero grava un obbligo di controllo, di direttive e di vigilanza, mentre la struttura ospedaliera risponde soltanto nelle attività di tracciabilità interna del sangue, non anche quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale.
Avv. Carmine Lattarulo